Parlare chiaro, fidarsi di più. Costruire una cultura comunicativa che generi fiducia (con il modello C.R.A.P.)

Avete mai avuto una call di debriefing per discutere le task di follow-up del  meeting con il nuovo lead?  Forse no, magari perché nella vostra azienda non è d’uso comune affidarsi a così tanti anglicismi.

Forse vi risulterà più familiare però “un incontro di allineamento che si è reso necessario in quanto risulta ovvio che dal confronto con il potenziale portatore d’interesse vi sono molti punti ancora da visionare”. Oppure, che “bisogna discutere le KPI, pensare fuori dagli schemi, offrire al cliente un’esperienza immersiva, vendere un’idea, creare un bisogno, dare il 110%”.

 

Questi che abbiamo riportato sono solo alcuni degli esempi che vengono spesso citati da lavoratori e lavoratrici quando si chiede loro di fare degli esempi di cosa si intenda per comunicazione non chiara: in alcuni casi si tratta di giri di parole superflui o di un linguaggio tecnico esasperato: l’emittente del messaggio crede – a volte anche in buona fede – che questa strategia possa incrementare la professionalità dai trasmettere ai propri interlocutori.  

 

La verità è che non sempre il risultato è quello auspicato: tecnicismi pomposi, forestierismi forzati, inutili forme perifrastiche e modi di dire così abusati e stereotipati da aver perso la propria valenza – contribuiscono alla costruzione di forme di comunicazione non chiara che, a lungo andare, possono corrodere la credibilità individuale e indebolire le reti fiducia, in particolare in contesti aziendali.

Questo tipo di comunicazione non avviene solo in contesti lavorativi: non dobbiamo infatti allontanarci molto dalle nostre realtà quotidiane per imbatterci in esempi di comunicazione che sembrano celare un messaggio intrinsecamente semplice dietro muri di velleità lessicali e sintattiche… (Visto quanto è facile cadere nella trappola?).

 

Sebbene sia riscontrabile in tutte le lingue, in Italiano questa tendenza a complicare inutilmente la comunicazione è molto diffusa e per alcuni potrebbe avere un retaggio storico e culturale. Ai suoi albori, l’italiano era perlopiù destinato a scopi letterari o artistici (ad esempio, era la lingua dell’opera lirica) ed utilizzato in contesti ad appannaggio quasi esclusivo di un’élite colta. L’italiano come lingua nazionale  si diffonde inizialmente molto lentamente, prima di tutto attraverso il linguaggio burocratico e tramite il sistema scolastico. Arrivando quindi alle persone “dall’alto” (qui l’autrice ha fatto uno sforzo immane per evitare di scrivere “con un approccio top-down”), l’italiano standard inizia ad esistere perlopiù in forma scritta, discostandosi quindi dall’esperienza linguistica vissuta nel quotidiano e soprattutto creando un netto distacco dalle varietà di italiano parlato.

 

Questo fece sì che un linguaggio complesso venisse automaticamente percepito come corretto e aulico, alimentato da una didattica che spronava (e sprona tuttora) studenti e studentesse a sostituire parole più comuni con sinonimi ricercati. (Quante volte in un tema abbiamo preso in prestito il termine fanciulla per dare un tono letterario al termine ragazza, ci siamo recati invece di andare ed abbiamo acquistiamo invece di comprare? Quante volte il nostro filo conduttore è diventato un fil rouge o un letimotiv? Quante volte queste nostre scelte stilistiche sono state ricompensate da un bel voto soddisfatto dei nostri professori e professoresse e da parenti ammirati della nostra dimestichezza con sinonimi poco comuni nell’uso quotidiano?

 

L’arricchimento lessicale è ovviamente una pratica encomiabile, tanto in età scolare quanto in età adulta. Il risultato di questa educazione scolastica alla complessità linguistica, però, non sembrerebbe aver plasmato una nazione di forbiti scrittori. Al contrario, il risultato è la cosiddetta “Antilingua” di Italo Calvino (lettura consigliatissima, tratta dai suoi “Discorsi su letteratura e società”), vale a dire una lingua che tenta (spesso invano) di abbellirsi con orpelli percepiti come aulici in base alla loro bassa frequenza in ambiti d’uso quotidiano (proprio come le parole di questa frase). Il risultato è invece una lingua iper formale e quasi incomprensibile, anche in tipologie testuali (quali testi espositivi o testi prescrittivi) il cui scopo principale non è quello di intrattenere bensì di informare.

 

La cultura degli -ismi, come la definisce Falcinelli nel suo “Testi che parlano: Il tono di voce nei testi aziendali” (Falcinelli, 2018) rimane quindi annidato per anni nelle nostre penne, e torna ad insinuarsi nei nostri testi sotto forma di tecnic-ismi;  neolog-ismi e forestier-ismi che spesso contribuiscono più a compiacere la penna che li genera piuttosto che al raggiungimento dell’obiettivo di una comunicazione: essere chiari. Ne è un esempio recente quello riportato da Petterson, esperto di marketing digitale plurilingue, che sottolinea come quello che negli aeroporti di tutto il mondo è un semplice cartello sul quale è disegnata una persona stilizzata che indossa una mascherina, negli aeroporti è diventato un cartello che recita:

 

“Secondo le misure di contenimento del contagio da Covid-19 previste dal DPCM 26 Aprile 2020, è obbligatorio usare protezioni alle vie respiratorie negli spazi interni accessibili al pubblico. Anche in aeroporto, è dunque obbligatorio l’utilizzo di mascherine”.

 

Quello della comunicazione chiara supera però i confini della scelta stilistica e diventa un vero e proprio problema culturale e persino etico – tanto in contesti aziendali quanto in contesti politici e sociali – quando inizia ad alimentare una vera e propria cultura comunicativa basata sulla pura retorica di facciata.

 

Il linguaggio è certamente curato, la terminologia è ricca, le fonti sembrano a primo acchito attendibili. Dietro tutto questo, in realtà, si cela però il vuoto in termini di evidenze empiriche, nessun dato a sostegno delle proprie tesi, o poca conoscenza del tema di cui si sta, tuttavia, parlando. 

Si tratterebbe quindi di un linguaggio forzatamente ricercato, spesso con l’obiettivo di confondere o di escludere l’interlocutore – che si lascia quindi intimorire o escludere da una terminologia estremamente  (ed immotivatamente) tecnica e da dati apparentemente veritieri (ma in realtà inventati sul momento) – ai quali risulta difficile controbattere seduta stante o  con il  tempismo necessario per un confronto immediato. 

 

Un esempio emblematico del fenomeno (Iacobucci & De Cicco, 2022) è il caso dell’ex presidente Donald Trump in visita dal primo ministro canadese, Justin Trudeau. Trudeau affermò che  il Canada non aveva alcun disavanzo commerciale con gli Stati Uniti. 

 

Trump si oppose a questa affermazione con veemenza, presentando anche dati puntuali che sostenessero il contrario, riuscendo ad apparire sicuro di sé ed uscendo vincitore dal dibattito, seppur su un piano puramente retorico. Poco dopo, in un discorso tenuto in una campagna di raccolta fondi in Missouri, Trump stesso ammise di non avere la minima idea di quali fossero i dati reali a riguardo: non sapeva se effettivamente il Canada avesse o meno un disavanzo commerciale con gli Stati Uniti né aveva alcun dato ufficiale a sostegno delle sue affermazioni, ma stava semplicemente dimostrando di poter tener testa a Trudeau (The New Republic, 2018) facendo ricorso ad un linguaggio apparentemente preciso seppur basato su dati inventati e senza alcuna conoscenza dell’argomento. Tanto bastò ai suoi sostenitori per crearne una notizia: i nuovi dati – scorretti – riempivano ormai i feed dei principali Social Network, costruendo consenso verso Trump e dichiarandolo vincitore del velato scontro politico.

Bullshit language, o linguaggio delle sciocchezze

La ricerca accademica (che utilizza l’inglese come lingua franca) definisce questo fenomeno, con un termine inglese molto colorito: quello della bullshit language. 

La comunicazione delle sciocchezze, come la definiremo noi in maniera più morbida, è una comunicazione che per definizione  avviene senza alcun riguardo per la verità. 

 

In questo senso, l’interlocutore dirà tutto ciò che serve a sostenere i propri interessi, i propri punti di vista, le proprie posizioni, le proprie proposte, portando così avanti la sua personalissima agenda, senza preoccuparsi se quanto sta dicendo è vero o falso. 

 

Per molti, tale tendenza sarebbe molto più pericolosa delle bugie: mentre il bugiardo sa di mentire ma conosce la verità, seppur decidendo attivamente di oscurarla  – la persona dedita a produrre sciocchezze non si preoccupa affatto della verità. Non conosce come stanno i fatti, né gli interessa conoscerli: produrrà sul momento i contenuti che gli servono a sostenere le proprie tesi, inventerà numeri e statistiche a caso, citerà fonti inesistenti e –  a volte – questo gli servirà per guadagnare terreno rispetto al proprio interlocutore e convincere il pubblico che ha di fronte.

 

Il professor Ian McCarthy, insieme al proprio gruppo di ricerca, ha tentato di spiegare per quale motivo bisogna agire affinché le aziende riescano a combattere attivamente questa indifferenza nei confronti della verità, che porterebbe spesso a ingiustizie, atteggiamenti manipolatori, distorcendo le percezioni di competenza, trasparenza ed affidabilità e, infine, corrodendo i rapporti di fiducia – sia all’interno che all’esterno

 

Questa forma nociva di comunicazione vuota per puri fini persuasivi e retorici – a lungo termine – indebolisce l’etica della verità, distrugge l’efficacia comunicativa e – seppur risultando a tratti divertente e comica, com’è avvenuto spesso con Donald Trump  – contribuisce all’erosione della fiducia reciproca e nelle organizzazioni: sovvertendo la comunicazione significativa, ci allontana mentalmente dalla realtà dei fatti e, quindi, dall’impatto delle nostre azioni nel mondo reale. 

 

Ma cosa fare, quindi, per combattere una comunicazione non chiara o basata su solide sciocchezze? Come afferma il professor McCarthy, nonostante la sua pervasività e il suo impatto sulle prestazioni lavorative, ad oggi sono pochi i consigli pratici su come vada affrontato il rischio di diffondere una cultura delle sciocchezze sul posto di lavoro.

McCarthy e colleghi hanno creato il modello C.R.A.P – acronimo che risulterà a chi mastica l’inglese abbastanza colorito e ironico, tanto quanto il fenomeno che ambisce a contrastare. Il modello C.R.A.P ci serve come guida per Comprendere, Riconoscere, Agire e Prevenire le sciocchezze.

 

In linea generale, il modello C.R.A.P ci invita a sviluppare un sano cinismo nei confronti delle comunicazioni che ci sembrano troppo astratte e complicate: abuso di –ismi, quindi, ma anche connessioni poco logiche  e mancanza di prove o dati supporto delle proprie affermazioni

Il modello C.R.A.P.

  1. Punto 1 del modello: Comprendere

Comprendere è sempre il punto di partenza. Se l’essenza di una comunicazione vuota e basata su sciocchezze è il palese disprezzo per la verità – dobbiamo imparare innanzitutto a scindere la forma dalla valutazione del contenuto. Oltre a valutare il fascino di un messaggio persuasivo, dobbiamo anche trarre le nostre conclusioni su quanto il messaggio sia fondato o meno sulla verità, o su quanto l’interlocutore stia semplicemente cercando di ammaliarci, confonderci e portare acqua al proprio mulino. Per aiutarci in questo arduo compito, i ricercatori e le ricercatrici dicono che è innanzitutto utile capire se, quando e perché noi stessi lo facciamo, dato che nessuno di noi ne è immune alla produzione di sciocchezze.


Io, ad esempio, tendo a complicare il mio linguaggio quando percepisco che qualcuno sta criticando il mio lavoro in ambito socio-linguistico e quindi sento minacciata la mia “autorità” accademica in questo settore: spesso lo faccio (in maniera errata) attingendo da una terminologia che non molti condividono con me, ovvero quella della ricerca in linguistica generale – che ho studiato per molti anni. Per questo mi ritrovo a parlare di deissi, di potenzialità semiotiche e multimodali del discorso digitale e di affordance della diade testo/immagine. Il risultato non è sicuramente quello di avvicinarmi all’interlocutore o di ragionare insieme sulla critica che ho ricevuto, bensì spesso quello di allontanare l’interlocutore e chiudere la conversazione, rinunciando ad un confronto costruttivo. Sicuramente non è una strategia di apertura che porta ad un confronto costruttivo. 


Stando a quanto affermano studiosi e studiose del fenomeno, emergerebbero quattro ragioni principali per cui le a volte utilizziamo una comunicazione non chiara sul posto di lavoro (e non solo):


a. Per prendere le distanze dalle nostre responsabilità e dalle nostre emozioni.

Individui, aziende, gruppi ed istituzioni, spesso tendono – consciamente e inconsciamente –  ad oscurare il reale impatto delle loro decisioni e di allontanarsi dalle conseguenze emotive e personali delle loro azioni tramite espedienti retorici. Questo è il motivo per cui sono stati inventati termini come “rightsize” (ridimensionare – (ri)portando, però alla giusta dimensione) per sostituire un equivalente ben comprensibile, ma forse più doloroso, ovvero il termine “licenziamento”. 


b. Manipolare

McCarthy esplora le distinzioni tra sciocchezze e bugie, dimostrando come le prime siano diverse dalle seconde perché vengono usate deliberatamente per manipolare, oscurando il significato – come anticipato – con un linguaggio complesso o pieno di gerghi, abbreviazioni e chi più ne ha più ne metta. Queste sciocchezze sono molto persuasive, e al contempo eludono la dichiarazione di una realtà chiara, e quindi evitano una presa di posizione netta, offrendo al produttore di sciocchezze anche la possibilità di ritrattare quanto dichiarato con maggior facilità. Roger Miles, esperto di stima del fattore umano nella valutazione di rischi, osserva che un tratto comune a persone che esercitano forme di leadership tossiche è la tendenza a sviluppare e  creare un linguaggio parallelo, un insieme alternativo di parole per descrivere ciò che sta accadendo. Questa forma di “manipolazione psicologica maligna” (per approfondimenti, si veda il termine gaslighting) permette a questi leader di manipolare il linguaggio senza alcuno scrupolo – in modo da attribuirsi facilmente il merito i vari successi e allo stesso tempo di eludere la responsabilità personale per qualsiasi fallimento. Ne sono un esempio da manuale la campagna sloganistica  e l’approccio comunicativo della “Leave Campaign” e della “Take Back Control” legate alla Brexit. 


c. Apparire (bene) e sentirsi inclusi e importanti

Usare nuove parole che piano piano si stanno facendo spazio nella nicchia che frequentiamo – sia essa un team di lavoro o un intero settore lavorativo più ampio – ci fa sentire bene. Prima di tutto, ci danno l’impressione di appartenere ad un gruppo. In secondo luogo, ci fanno sentire al passo con i tempi, ed al corrente con le ultime novità. Certamente, a volte questo funziona, ma solo quando questo linguaggio è effettivamente condiviso all’interno del gruppo di parlanti, che lo riconoscono come funzionale agli scopi comunicativi del team. Ad esempio, potrei tranquillamente e senza rischi dire al mio gruppo di colleghi di Marketing e Comunicazione che la SEO di questo blog post va ottimizzata e che l’articolo è carente nello score legato alla presenza delle keyword negli H2. Se però rispondessi in questo modo alla persona che gestisce il reparto di accounting – che non mi sta particolarmente simpatica e che da qualche mese fa battute sul fatto che “il team di digital marketing sta su Facebook per lavoro” – probabilmente lo sto facendo solo per ribadire la mia competenza e la mia posizione. Ponendola di fronte ad una terminologia estremamente tecnica – che avrei potuto riassumere in maniera più inclusiva affermando che sto inserendo delle parole chiave nel nostro articolo, in modo tale che chi cerca informazioni su queste tematiche con una ricerca su Google, lo troverà con  maggior facilità. L’abuso di terminologia tecnica si diffonde, gli ambiti d’uso si contaminano, prendono in prestito, superano i contesti in cui sono nati. Ed eccoci qui, in un mondo pieno di ”agile”, “ideazione”, “ecosistema”, “abilitante”, “performanti” e “top-slicing”.


d. Per pigrizia

È molto più facile mettere insieme un po’ di cose che “suonano” fantasiose piuttosto che cimentarsi nel duro lavoro intellettuale richiesto per pensare e articolare ciò che vogliamo dire.


  1. Punto 2 del modello: Riconoscere:

La seconda chiave di volta per riconoscere le sciocchezze è conoscere i trucchi tramite i quali  si mascherano. Questo implica riconoscere come – con quali stratagemmi scritti, verbali o grafici – i colleghi vanno a formulare le dichiarazioni che stanno emettendo senza riguardo per la verità. Spesso, tali affermazioni sono di natura astratta e generale e si presentano come l’opposto dell’italiano chiaro (immaginatevi un continuum che ha ad un estremo un articolo de ll Post ed all’estremo opposto un tweet di Diego Fusaro).

Furbetti che agiscono come se ci fosse la libertà e non il dominio spietato del Leviatano tecnosanitario. pic.twitter.com/A8g9NqPgP2

— Diego Fusaro (@DiegoFusaro) December 27, 2021

Le affermazioni mancheranno di dettagli, fonti a volte di logica. Altre volte avranno tutte le caratteristiche – come gli -ismi – tipiche dell’italiano apparentemente forbito di cui abbiamo parlato prima. 


  1. Punto 3 del modello: Agire

Cosa possiamo fare attivamente di fronte a questi abusi linguistici? McCarthy e colleghi delineano quattro tipi di risposte: alzare la voce, trascurare, abbandonare o accondiscendere. Molti dipendenti potrebbero scegliere risposte basate sull’“attacco”, come parlare per smascherare coloro i quali producono questo genere di disinformazione, specialmente in un’azienda che ha una cultura ed un’etica fortemente basate sul feedback costruttivo e sulla “speak-up culture”, prima di ricorrere ad altre risposte tipiche della strategia di fuga. Possono farlo fornendo prove che sfidano le sciocchezze fornendo dichiarazioni, fatti, prove alternative che confutino tale sciocchezza e la smascherino una volta per tutte. Tuttavia, prima di farlo, dovrebbero essere consapevoli che le sciocchezze semplici e coerenti tenderanno ad essere più attraenti delle verità intricate e complesse (McCarthy et al). Per questo motivo, molti tendono semplicemente ad ignorare e trascurare queste sciocchezze. Quando – però – farsi sentire non basta e ignorare diventa troppo oneroso in termini tanto emotivi ed etici, quanto cognitivi e di coerenza interna –  si tenderà a fuggire o dalle sciocchezze, in casi estremi abbandonando addirittura l’azienda (secondo questa ricerca) di HR Daily Advisor, il 63% dei lavoratori e delle lavoratrici ha pensato di lasciare il proprio lavoro per problemi di comunicazione). Il recente fenomeno del quiet quitting sembrerebbe proprio una strategia basata sul trascurare o ignorare contesti che non ci soddisfano, finché non si presenta l’occasione effettiva di licenziarsi.

Se questo non è possibile – perché un dipendente, seppur stufo, ha ancora bisogno del proprio lavoro – potrebbe passare dal semplice ignorare ad accettare tali sciocchezze. Lo farà prendendole per buone – nonostante le vedano per quello che sono – non tanto perché ne siano convinti o perché le trovino attraenti, ma per fedeltà al proprio capo, alla propria organizzazione – autoconvincendosi che siano in qualche modo buone per l’organizzazione. 

 

  1. Punto 4 del modello: Prevenire

Una prevenzione efficace – come sempre – permette di ridurre al minimo la necessità e i costi associati al riconoscimento e all’azione contro le sciocchezze. McCarthy propone quattro pratiche per aiutare a prevenire le sciocchezze in ufficio e promuovere l’etica della comunicazione chiara:

  1. Incoraggiare il pensiero critico
  2. Dare valore alle prove piuttosto che alle opinioni
  3. Proibire il gergo eccessivo e gli inganni statistici
  4. Eliminare riunioni e consultazioni inutili.

Noi aggiungeremmo anche la lettura e il completamento degli esercizi proposti in “Testi che parlano: Il Tono di Voce nei Testi Aziendali” di Valentina Falcinelli – a tutto il team, anche se non siete Copywriter.


Infine, il gruppo di ricerca di McCarthy ha sviluppato una scala che permette di misurare l’impatto e le aree coinvolte dalle comunicazione poco chiara in azienda.

Lo strumento si chiama Organizational Bullshit Perception Scale:  le misure sono autoriportate – con tutte le limitazioni che ciò comporta. 

Tuttavia, è un ottimo strumento per valutare lo stato di salute della comunicazione nelle aziende e all’interno dei team di lavoro.

Bibliografia

Ferreira, C., Hannah, D., McCarthy, I., Pitt, L., & Lord Ferguson, S. (2022). This place is full of it: Towards an organizational bullshit perception scale. Psychological Reports, 125(1), 448-463.

McCarthy, I. P., Hannah, D., Pitt, L. F., & McCarthy, J. M. (2020). Confronting indifference toward truth: Dealing with workplace bullshit. Business Horizons63(3), 253-263.

Iacobucci, S., & De Cicco, R. (2022). A literature review of bullshit receptivity: Perspectives for an informed policy making against misinformation. Journal of Behavioral Economics for Policy6(S1), 23-40.

Falcinelli, V. (2018). Testi che parlano: il tono di voce nei testi aziendali. Franco Cesati editore.

L’articolo è a cura di Serena Iacobucci, PhD in Economia Comportamentale, Communication & Content Manager di Umana-Analytics. Sul tema della Bullshit, Serena insieme ad altri membri del team ha curato una review della letteratura che affronta la questione da un punto di vista di politiche pubbliche, pubblicata sul Journal of Behavioral Economics for Policy.  Ha inoltre pubblicato uno studio sperimentale che dimostra come la sensibilità delle persone al linguaggio bullshit è un predittore della propensione a credere a contenuti fasulli sul web e – quindi – a diffonderli.

 

Per maggiori informazioni: iacobucci[at]umana-analytics.com

Condividi l'articolo

Leggi altri articoli

Vuoi saperne di più?

contattaci
Scroll to Top Skip to content