Discriminazione e pregiudizi in ambito aziendale: perché alcuni programmi per diversità, equità e inclusione sembrano non funzionare?

Questo articolo è stato riadattato da “The Open Secret of What Works—and What Doesn’t—for Diversity, Equity, and Inclusion”, di Elizabeth Weingarten, apparso sulla rivista online Behavioral Scientist.

Se vuoi leggere l’originale in inglese clicca qui.

Moltissimi oggetti che utilizziamo quotidianamente sono delle versioni “modernizzate” di invenzioni che risalgono agli anni ‘60. Dalla pillola anticoncezionale al pluriball – la plastica da imballaggi “millebolle” che c’è chi si diverte a scoppiare (e chi mente) – fino ai linguaggi di programmazione: molte invenzioni dell’epoca hanno contribuito a migliorare la nostra vita e continuano a farne parte, seppur con tutti gli aggiornamenti necessari.

 

È sempre agli anni sessanta che dobbiamo un altro fenomeno che – con tutte le sue evoluzioni – è arrivato fino ad oggi: quello dei corsi di formazione su diversità e inclusione. Questi corsi nascono con lo scopo (e la speranza) di sensibilizzare i dipendenti su tematiche quali accettazione e uguaglianza, combattendo stereotipi, pregiudizi ed eliminando i bias che ne derivano. Al contrario però di tutte le altre incredibili invenzioni cui abbiamo fatto cenno, molti studi hanno dimostrato che, nonostante appunto questo tipo di formazione esista nelle aziende sin dagli anni ’60, nella maggior parte dei casi i corsi sulla diversità non hanno praticamente alcun effetto e non riescono  ad avere l’impatto e la risposta auspicati (Dobbin & Kalev, 2022).

 

Certo in quegli anni si partiva da una situazione più estrema rispetto a quella che abbiamo oggi. Le discriminazioni razziali e sessuali erano all’ordine del giorno e non si limitavano solo all’ambito lavorativo e aziendale. Negli ultimi tempi abbiamo assistito alla nascita di movimenti quali il #MeToo e il “Time’s Up”, che sono riusciti in qualche modo a porre in luce molestie sessuali e abusi di potere verificatisi in molte industrie (Grissom, 2018). Nonostante i progressi, però, il cammino sembra essere ancora lungo e si sente appunto la necessità di rivedere e migliorare i corsi erogati sul posto di lavoro.

 

Questi corsi cominciarono a diffondersi a partire dalla legislazione del 1961, messa in atto dal presidente Kennedy per porre fine alle discriminazioni razziali. Nel 1964, viene emanata un’ulteriore legge che rende illegale anche la discriminazione sessuale. Le organizzazioni si adeguano e cominciano a diffondere corsi anche su quest’ultima forma di discriminazione.

 

Perché, se questi corsi esistono da così tanto tempo non hanno mai sortito l’effetto voluto? Ma soprattutto, se la loro poca efficacia era già nota negli  anni ’60, perché non è mai stato di fatto nulla per modificare il modo in cui formiamo i nostri team sulle tematiche di diversità e inclusione?

 

Nel loro libro “Getting to Diversity: What Works and What Doesn’t”, Alexandra Kalev, professoressa associata del dipartimento di Sociologia e antropologia dell’Università di Tel Aviv, e Frank Dobbin, docente di scienze sociali del dipartimento di Sociologia dell’Università di Harvard, ci spiegano perché molti dei programmi a tema diversity promossi dalle aziende falliscono e in che modo, invece, potrebbero funzionare meglio. 

In questo articolo:

Diversità e inclusione “a buon mercato”

Una delle prime motivazioni evidenziate dagli autori riguarda gli effetti a breve termine. Le sessioni dedicate alle tematiche di inclusione si focalizzano spesso solo su alcuni specifici temi, che vengono trattati magari nel corso di qualche ora e all’interno di un unico pomeriggio. In questo caso, anche se i dipendenti coinvolti partecipassero tutti con attenzione e collaborazione, riuscirebbero a modificare i propri atteggiamenti solo per poco tempo. A lungo andare infatti questi cambiamenti vengono persi e non riescono a trasformarsi in un’abitudine. 

 

Legata a questa, un’altra motivazione è che, molto spesso, le aziende acquistano corsi “a buon mercato”, ovvero che non hanno alle spalle alcuna solida base scientifica né si focalizzano su concrete ricerche accademiche. In questo modo, l’azienda riuscirà a dare senz’altro l’impressione esterna di “star facendo qualcosa” in merito alle problematiche su diversità  e inclusione, ma, di fatto, questi corsi privi di comprovata valenza scientifica non riusciranno ad apportare alcun cambiamento nel comportamento dei dipendenti.

 

Ma allora come facciamo a sapere se i corsi sono validi?

 

Dobbin e Kalev hanno utilizzato i dati di oltre 800 aziende raccolti tra il 1971 e il 2015 ed analizzato alcune interviste condotte ai manager (dopo il 2007) di oltre 100 aziende ed hanno scoperto che uno degli indicatori più rilevanti per capire se un programma funziona o meno è quello di osservare l’impatto del numero di donne e persone di colore nella sfera dirigenziale. Arrivare ad ottenere incarichi di dirigenza, infatti, dimostra come il lavoratore, indipendentemente dal proprio background, sia riuscito ad essere valorizzato nel suo campo, ottenendo promozioni e riconoscimenti che lo hanno portato ad avanzare di carriera.

 

Dalle analisi di questi dati è inoltre risultato che uno dei programmi di maggior impatto è il sistema di mentoring. Il grande vantaggio offerto dai sistemi di tutoraggio è che si pongono come obiettivo principale  quello di aiutare i manager a vedere gli ostacoli che le persone di colore e le donne devono affrontare giornalmente e aiutare a risolverli, mostrando a chi sta in una posizione più alta i punti di forza di tutti i dipendenti, ma anche le loro aspirazioni e le  qualità necessarie per riuscire a salire di livello.  

 

Ma cosa serve per far funzionare un programma di mentoring? Bastano poche componenti importanti, una è quella di abbinare il mentore esclusivamente in base all’interesse lavorativo, questo significa fare abbinamenti prendendo in considerazioni le  competenze e il ruolo che sia il tutor che il dipendente ricoprono nell’organizzazione, permettendo di rompere tutte quelle barriere sociali che di solito contraddistinguono gli abbinamenti, che spesso vengono fatti sulla base di informazioni demografiche e sociali.

 

Un’altra componente fondamentale è che il mentoring deve essere aperto a tutti, non solo a chi si crede possa salire di livello. Questo consentirà di fornire le stesse opportunità a tutti i dipendenti, anche – e soprattutto a – coloro che non mostrano un talento immediato e che hanno bisogno di più tempo per emergere.

Bias e pregiudizi, mai dimenticarsene

Un altro programma che si è rivelato essere molto fruttuoso dal punto di vista dell’inclusione è quello relativo ai team autogestiti. L’idea di questi tipi di team nasce dal fatto che solitamente il lavoro nelle organizzazioni, a causa di pregiudizi e stereotipi, viene diviso per colore e genere: per esempio uomini e donne possono lavorare insieme, ma solitamente la donna assume il ruolo di assistente per via di uno stereotipo tristemente classico, per cui le donne devono sempre assumere una funzione di supporto e quasi mai di leadership.


All’interno dei team autogestiti, persone che prima non hanno mai avuto l’opportunità di lavorare alla pari possono in questo caso collaborare fianco a fianco per la realizzazione di un progetto comune, dipendendo l’uno dall’altra per il raggiungimento di un risultato. In questo modo si crea una consapevolezza differente rispetto ad un classico corso, perché l’altro può finalmente essere visto come “persona”, che ha delle capacità e delle idee.


Certo, essendo, le organizzazioni formate da essere umani, inciampare in pregiudizi, stereotipi e bias è all’ordine del giorno. Per esempio, è stato dimostrato che durante le crisi, le aziende hanno maggiori probabilità di licenziare donne e persone nere e, soprattutto, meno probabilità di assumerle ex novo. Ciò avviene per via di un bias, che, secondo Kalev, ha due componenti principali: uno strutturale e uno individuale. 


La componente individuale si attiva perché quando “la nave affonda” si ha la tendenza a voler avere accanto le persone di cui maggiormente ci fidiamo, mettendo allo scoperto pregiudizi che neanche credevamo di avere a livello consapevole.


La componente strutturale, invece, dipende essenzialmente dal fatto che solitamente le donne e le persone nere sono le ultime a essere arrivate nell’organizzazione e come si suol dire “chi tardi arriva, male alloggia”.


In questi casi, propongono gli autori, una delle soluzioni più proficue potrebbe essere quella di istituire all’interno delle organizzazioni un “diversity manager”, ovvero un manager che possa occuparsi esclusivamente di gestire i problemi di pregiudizi legati alla diversità. Il loro compito principale sarebbe quello di attivare la responsabilità sociale del dirigente o del responsabile delle assunzioni, mettendoli di fronte alle loro scelte e ai loro pregiudizi inconsci, facendogli notare, ad esempio, perché su 15 candidati donne e 15 candidati uomini si è scelto di assumere 7 uomini ed una sola donna per le posizioni aperte, mettendo in luce se ci fosse davvero un problema nelle capacità di chi è stato scartato oppure un semplice bias di giudizio.


Quando prendiamo una decisione, come quella dell’assunzione, non dobbiamo dimenticarci che di fronte a noi c’è una persona. 


Ciò che potreste fare in queste situazioni è provare a guardarvi dall’esterno,  dubito che vi piaccia essere esclusi per via del  colore dei vostri occhi e questa situazione – del tutto assurda – non è diversa da escludere una persona per il proprio genere o per il colore della  propria pelle.


Il potere del  manager della diversità  non è agire tramite un reclamo formale, ma tramite qualcosa di molto più potente e, per quanto possa sembrare poco realistico, si fa  riferimento all’influenza sociale, dalla quale è difficile sfuggire.   

Bibliografia

Grissom, A. R. (2018). Workplace diversity and inclusion. Reference & User Services Quarterly, 57(4), 242-247.

 

Dobbin, F., & Kalev, A. (2022). Getting to diversity: What works and what doesn’t. Harvard University Press.

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