Non fare di tutta l’erba un fascio: le differenze individuali negli interventi di wellbeing aziendale

Questo articolo è stato riadattato da “One Size Doesn’t Have to Fit All”, di Kun Zhao e Luke Smillie, apparso sulla rivista online Behavioral Scientist sui temi del well-being intervention.

Se vuoi leggere l’originale in inglese clicca qui.

Sappiamo ormai molto bene che per avere un’azienda performante e “in salute” è necessario che tutti i membri del team ricevano la giusta considerazione per quello che è il loro benessere sul lavoro. Molti studi e molti interventi sono già stati fatti per far progredire il wellbeing e l’attenzione al lavoratore nelle organizzazioni, ma è necessario fare ancora molta strada perché sia possibile garantire a tutti un luogo di lavoro in cui il benessere dei dipendenti venga messo al primo posto e non vengano trascurati dei diritti fondamentali.

 

Jacques-Hamilton e colleghi (2019) hanno di recente svolto uno studio diretto ad aumentare il benessere all’interno di un team. Nel corso di una settimana è stato istituito un programma per cui i partecipanti avrebbero dovuto “agire in modo audace, loquace, estroverso, attivo e assertivo” ogni volta che si trovassero ad interagire con qualsiasi altra persona nel corso delle loro giornate. Contemporaneamente, e per sei volte al giorno, venivano rilevate alcune misure legate al benessere, come ad esempio emozioni positive o negative. 

 

Inizialmente, questo intervento sembrava aver dato i suoi frutti ed aver aumentato il generale senso di benessere all’interno dell’organizzazione. Sembrava che il semplice interagire fra loro in modo più “estroverso” o “attivo” avesse portato i membri del team ad un maggior senso di appartenenza e comfort. Ma, come spesso sentiamo dire, non è affatto oro tutto quello che luccica. Ad un esame più approfondito, infatti, gli autori capiscono che i risultati non sono così promettenti come si evince dalla media generale. Esaminando più da vicino ogni partecipante, si scopre che il trattamento aveva avuto un elevato beneficio solo per quei lavoratori che già esibivano di per sé dei tratti piuttosto marcati di estroversione. 

 

Ma ecco emergere l’altra faccia della medaglia: i dipendenti con tratti di personalità introversi, non solo non avevano ricevuto alcun beneficio dal programma, ma anzi ne avevano sofferto, ottenendo dei risultati in negativo. Il loro benessere, anziché aumentare, era calato, e dichiaravano di aver provato forte stanchezza, emozioni negative e senso di inautenticità nelle loro azioni.

 

Se dunque l’azienda avesse dato peso solo ai risultati medi, estrapolati e generalizzati a tutto il campione, avrebbe attuato un programma che effettivamente sembrava promettente in un primo momento, ma che, a lungo andare, avrebbe condotto alcuni dipendenti a forti esperienze negative e avrebbe avuto effetti anche sul resto del team. I risultati appena analizzati suggeriscono che interventi di tipo comportamentale possono avere diversi effetti su persone diverse, mettendo in luce un’eterogeneità di cui bisogna tener conto nel momento in cui si progettano azioni di questo tipo. 

Pensare agli individui e non alle medie

Uno dei maggiori meriti dell’economia comportamentale è sicuramente -e ormai lo sappiamo bene- quello di aver radicalmente scardinato il concetto di homo oeconomicus, ovvero di essere umano perfettamente razionale che prende le sue decisioni in modo matematico e calcolato. Quel che però è ancora presente e forte come concetto, ben radicato in alcuni degli studi comportamentali che ancora oggi vengono condotti, è l’assunto per cui tutti gli esseri umani debbano comportarsi in modo più o meno simile nel momento in cui gli vengono fatti approcciare alcuni compiti, dimenticando -in alcuni casi- quasi completamente le unicità ed i tratti caratteristici propri di ogni individuo. Viene preso in considerazione questo ipotetico “individuo medio”, per cui vengono applicati degli interventi che seguano il comportamento di tutto il campione durante l’esecuzione di uno specifico compito, da cui poi andrebbero estrapolati i programmi da integrare negli ambienti reali.

 

One size doesn’t have to fit all”, in sintesi, non esistono taglie uniche quando si parla di interventi di wellbeing all’interno delle organizzazioni. Se abbiamo davvero a cuore il benessere di ogni singolo membro del team, questi interventi devono necessariamente essere personalizzati e tener conto delle caratteristiche individuali. Ma come è possibile allora progettare degli studi più inclusivi in tal senso? La scienza della personalità ci viene incontro e ci fornisce delle misure che sono in grado di cogliere e capitalizzare al meglio differenze individuali legate al comportamento. 

 

Una di queste è senz’altro legata al concetto di tratto, ovvero un modello piuttosto stabile di pensieri e comportamenti che riesce a catturare con molta accuratezza delle tendenze a rispondere in un determinato modo in base alle circostanze. Tale modello viene organizzato utilizzando tassonomie come l’influente Modello dei Cinque Fattori, o Big Five. Più nello specifico, questa teoria identifica cinque “tratti” principali, ovvero caratteristiche proprie della personalità di ciascun individuo che sono ritenute essere di natura genetica e, dunque, difficilmente modificabili. Date queste caratteristiche, i tratti possono riuscire ad influenzare il comportamento in modo stabile e sono: Estroversione, Amicalità, Coscienziosità, Stabilità emotiva o nevroticismo, Apertura mentale (Cobb-Clark e Schurer, 2012).

 

Questi tratti di personalità possono essere dei predittori piuttosto affidabili di alcuni elementi fondamentali legati per l’appunto al wellbeing, alla salute personale e, di conseguenza, alle prestazioni sul lavoro. Non solo, sono anche in grado di spiegarci le differenze che è possibile riscontrare nelle risposte individuali ottenute da alcuni task comportamentali. Un individuo con tratti di personalità più coscienziosi presenterà ad esempio una maggiore avversione alla perdita rispetto ad individui incoscienti. A partire da questo, gli interventi orientati al benessere dei dipendenti potrebbero essere progettati sulla base delle differenze individuali. 

 

È stato dimostrato, per esempio, che anche per quanto riguarda l’ambito pubblicitario i messaggi persuasivi hanno maggior impatto se sono congruenti con la personalità di chi legge/osserva. Messaggi incentrati sull’eccitazione per un evento o su un qualche tipo di ricompensa sociale hanno più presa sulle persone con indole estroversa. Tutti quei messaggi che sono invece incentrati sul concetto di famiglia o, più in generale, sul concetto di legami affettivi, vengono maggiormente preferiti dall’individui con elevato grado di amicalità.

 

Chiaramente, questa differenziazione così elevata e questo livello di personalizzazione potrebbero portare ad un impiego di risorse troppo dispendioso per alcune realtà organizzative. In questo caso, è possibile semplicemente raccogliere delle informazioni sulle differenze demografiche e psicologiche e progettare dei task differenziati per il tipo di popolazione cui ci stiamo riferendo, oppure, come nel caso citato all’inizio di questo articolo, con queste informazioni alla mano è possibile evidenziare delle differenze postume relative a tutto il campione che abbiamo considerato. 

 

Gli scienziati comportamentali, infatti, nelle loro pratiche sperimentali, raccolgono già abitualmente informazioni di questo tipo (demografiche e psicologiche), che possono per l’appunto tornare utili nel momento in cui è necessario mettere in atto interventi differenziati. Pensate a questa attività come ad una  targettizzazione pubblicitaria di  uno specifico pubblico ad esempio su campagne social: la targetizzazione è tanto più precisa ed efficace quanto più precisa è l’aderenza dell’utente a cui viene mostrata con le caratteristiche indicate in fase di programmazione del pubblico a cui mostrare l’inserzione. Il marketing ci insegna che definire l’user persona è fondamentale per ottimizzare le conversioni raggiungendo efficacemente il pubblico target per il contenuto esatto. Perché la gestione delle risorse umane non dovrebbe funzionare allo stesso modo?

 

Misurare le differenze individuali nella fase di ricerca può anche essere utile per avere ben chiaro quale provvedimento può avere l’impatto più uniforme. Uno studio di Jacobson e colleghi (2015) mostra ad esempio che se utilizziamo messaggi persuasivi basati sulle norme ingiuntive – ovvero ciò che si ritiene sia giusto e corretto fare in una determinata situazione e che motivano il comportamento tramite il prospettarsi di ricompense o punizioni sociali – questi risulteranno efficaci solo sulle persone che presentano un basso livello di impulsività, mentre sono addirittura controproducenti per chi è molto impulsivo.

Conclusioni

Gli interventi mirati ad incrementare il benessere aziendale e la salute psicologica di tutti i dipendenti sono sempre più diffusi ed auspicati, così come l’impiego di esperimenti e studi di natura comportamentale che permettono di avere un quadro più chiaro e di avviare programmi più mirati. Come abbiamo visto, però, bisogna stare molto attenti al non fare di tutta l’erba un fascio, ovvero a non considerare dei risultati generalizzati da un campione molto ampio come validi per ognuno. 


Dei piccoli accorgimenti, come raccogliere informazioni psicologiche e demografiche prima di iniziare lo studio, possono aiutare a comprendere meglio i precisi vantaggi e svantaggi di uno specifico intervento per ogni singolo individuo. Meglio ancora, tali studi potrebbero essere progettati fin dal principio sulla base di un’analisi di personalità che coinvolge tutti i membri del team. Questo aiuterebbe sicuramente a dare valore all’individualità di ogni persona e non solo alla “media”.

Bibliografia

Jacques-Hamilton, R., Sun, J., & Smillie, L. D. (2019). Costs and benefits of acting extraverted: A randomized controlled trial. Journal of Experimental Psychology: General, 148(9), 1538.

 

Cobb-Clark, D. A., & Schurer, S. (2012). The stability of big-five personality traits. Economics Letters, 115(1), 11-15.

 

Souiden, N., Chtourou, S., & Korai, B. (2017). Consumer attitudes toward online advertising: The moderating role of personality. Journal of promotion management, 23(2), 207-227.

 

Jacobson, R. P., Mortensen, C. R., Jacobson, K. J., & Cialdini, R. B. (2015). Self-control moderates the effectiveness of influence attempts highlighting injunctive social norms. Social Psychological and Personality Science, 6(6), 718-726.

Condividi l'articolo

Leggi altri articoli

Vuoi saperne di più?

contattaci
Scroll to Top Skip to content